Gesualdo Iatrino, Katana,
www.editorialeagora.it – E-mail: info@editorialeagora.it – AGORÀ n. 25-26/2006
Catania, si sa, è stata fondata dai Greci nel 729-28 a. C., e reca evidenti, nella storia e nell’archeologia, le tracce di quest’origine. Ma prima non c’era niente? Sappiamo del popolo dei Siculi, di origine indoeuropea, che circa trecento anni prima dell’arrivo dei Greci (stando a Tucidide VI 1, 4) attraversò lo Stretto di Messina e si insediò nella Sicilia orientale: qui, scacciati i primitivi abitanti, i Sicani, si impossessò delle terre migliori e mutò il nome dell’isola da Sicania in Sicilia. Dei Siculi possediamo diverse testimonianze archeologiche ed epigrafiche, ma è ben poco per poter tracciare uno scenario sufficientemente delineato di una ipotetica Catania preellenica. In ogni caso, non si risalirebbe oltre il I millennio a. C.; ma la Sicilia fu certamente abitata da tempi ben più antichi.
A fronte del silenzio delle fonti storiche e dell’insufficienza di quelle archeologiche, qualche dato utile potrebbe forse ricavarsi attingendo a una “fonte” un po’ particolare e finora trascurata, almeno per ricerche di questo tipo: la cultura popolare. Quando un territorio viene invaso da un nuovo popolo, questo impone generalmente la propria lingua, la propria cultura e le proprie istituzioni; ma non al punto da cancellare completamente quelle degli indigeni, di cui qualcosa riesce sempre a sopravvivere a livello di sostrato. Ora, osservando attentamente la lingua e i costumi dei catanesi, si possono scoprire labili ma chiare tracce di un passato che rimonta ben al di là delle origini elleniche: questo lascia supporre che a Catania, prima dell’arrivo dei Siculi e poi dei Calcidesi, dovette esserci un insediamento umano appartenente al dominio dei popoli mediterranei, che aveva stretti rapporti commerciali e culturali con le grandi civiltà orientali, egiziana, fenicia, caldea, eblaita e così via. Sarebbe oltretutto inverosimile che, nel processo di espansione della civiltà da oriente a occidente, proprio la Sicilia rimanesse tagliata fuori; l’isola, posta al centro del Mediterraneo, ricca di acqua, boschi, porti, fari naturali (i vulcani attivi, Etna, Stromboli, Vulcano), certamente avrà costituito una tappa obbligata per i primissimi navigatori del Mediterraneo, soprattutto i fenici (a tacer del fatto che, in epoche ancor più remote, l’isola doveva essere molto più vicina di oggi alla costa africana – basti pensare alle affinità geologiche fra la costa agrigentina e quelle del Nordafrica -, e che lo Stretto di Messina nei periodi glaciali si poteva passare a piedi). È risaputo d’altra parte che la stessa civiltà greca, fin dal suo primo insediarsi nella penisola ellenica in epoca micenea, intrattenne anch’essa fitte relazioni con quelle civiltà e ne mutuò diversi elementi: basta pensare alla letteratura sapienziale, al mito, a numerosi prestiti linguistici, all’arte (nella ceramica si parla appunto di “stile orientalizzante”, che fiorì particolarmente nel VII sec. a. C.). Sicché i Calcidesi che sbarcarono a Catania non si trovarono davanti il nulla, ma, probabilmente, un qualcosa (anche se si trattava di un semplice villaggio, non di una città) di preesistente, di cui tenteremo ora di mettere a nudo le tracce nella lingua e nel folklore.
La mia ricerca ha avuto un inizio un po’ singolare: la curiosità di conoscere l’etimologia di uno dei più strani cognomi esistenti nell’ambito della mia parentela, e precisamente FRAZZETTO.
Avevo tentato di dare una risposta all’interrogativo, ma senza risultato. Ma nel novembre del 1998, trovandomi in gita a Trapani, notai una cosa strana:
quella zona della Sicilia era piena di persone che si chiamavano Frazzitta. La cosa risvegliò in me quella sopita curiosità, ed a quel punto ripresi a
cercare gli indizi che più si avvicinavano a questa deformazione del nome. Mi venne in mente che la strada che percorrevamo ogni giorno andando e tornando dall’albergo passava sopra un fiume che si chiamava XITTA: un nome più inusuale di “Frazzetto” o “Frazzitta”, col quale però doveva avere qualche relazione, e che certamente non era più greco ma doveva essere fenicio o qualcosa del genere.
Tornato a Catania ho iniziato a riflettere su quell’esperienza stupenda vissuta intensamente perché già avevo trovato un pur flebile collegamento, e più i giorni passavano e più approfondivo il collegamento tra Catania e Motia, dove si trovano pietre laviche lavorate e mosaici di pietruzze bianche e nere, identici a quelli che si trovano spesso a Catania: da dove provengono? Si delineava così, pian piano, il quadro di una Catania pregreca, abitata da popoli di stirpe e lingua semitica: probabilmente fenici ed egizi, che trovavano nella nostra città una scalo ideale per i loro commerci, e nell’Etna, che a quei tempi doveva essere più attivo di ora, un faro naturale per la navigazione notturna visibile a grandissima distanza(1).
Infatti, l’origine fenicia o egizia consente di spiegare molti toponimi finora rimasti oscuri: PLATAMONE “Platea Ammonis”, GAMMAZITA = GAMAL – XITTA ovvero sia “pozzo con tanta acqua (Xitta) da riempire i cammelli (Gamal)”(2).
Quanto al cognome Frazzetto, andrebbe spiegato come F’ R’ X’ T’ dove la “fe”, onomatopeico simbolo della barca a vela, più semplicemente significa soffiato, spinto; “R” è il simbolo fenicioegizio del dio R; X simboleggia la sorgente di acqua e T il fiume che sbocca in mare. Riassumendo, Frazzetto (o Frazzitta) significa “condotto da Ra alle sorgenti del fiume”(3).
Lo stesso nome di Catania, che finora ha resistito a tutti i tentativi di spiegazione, probabilmente ha origini egizie: “K’ T’ N’, ossia “qui c’è Aton”. Infatti il vulcano, faro naturale,sarebbe stato visto da questi primi abitanti come una manifestazione del dio solare Aton. Anche il nome del vulcano, che i Greci resero nella propria lingua con AITNA, non sarebbe altro che A’ H ’T’ H’N’ (leggi AITINA), cioè “la figlia di Aton”(4).
Siccome poi Catania era fornitissima di insenature, il suo nome divenne per antonomasia il simbolo del Bacino o Katon, passato poi al siculo Catinon e al latino Catinum “bacinella”: ancora oggi noi Catanesi usiamo dire “fari catuni” (comportarsi come al porto, quindi fare confusione) e “catuneri” (portuale, quindi uno che litiga, fa baccano ecc.).
Prova evidente del passato fenicio di Catania sembra essere proprio l’obelisco di Piazza Duomo, che finora è stato sempre (a torto) ricollegato al culto di Iside: in realtà i geroglifici che vi si leggono sono tuttora indecifrabili, in quanto non assomigliano a quelli egiziani. Desta meraviglia, in particolare, il geroglifico inciso sul lato nord, in alto: una linea ondulata verticale, dalla cui estremità superiore si diparte un segmento che poi piega verso il basso, formando una serie di cinque quadrati con un punto in mezzo, e quindi un triangolo, il tutto parallelo alla linea ondulata.
Lanciamo qui un’ipotesi: che si tratti di una raffigurazione simbolica della Sicilia e della sua distanza dall’Africa, simboleggiata dalla linea ondulata e separata dall’isola (il triangolo) da cinque giorni di navigazione.
Ma che cosa ci farebbero gli dei egiziani Aton e Ammone a Catania? Probabilmente la città, essendo un porto commerciale, era aperta e tollerante verso tutte le religioni: qui si saranno rifugiati i seguaci del culto di Aton dopo che il tentativo di Amenofi IV di imporlo si concluse con un sanguinoso fallimento (circa 1350 a. C.).
Non potendosi portare appresso oggetti di culto di maggiori dimensioni, scelsero un obelisco piccolo, lo caricarono su una nave e lo portarono qui, dove
vennero a convivere pacificamente con altri egizi adoratori di Ammone. Tracce di questi culti sono probabilmente da ravvisare in altri toponimi siciliani: VALDEMONE e NOTO. Valdemone non è, come potrebbe sembrare, “la valle del demonio”, ma la valle di Ammone; Noto, in lat. NETUM, sarebbe ancora una forma del nome di Aton, scritto N’T’ quando si riferiva a una realtà lontana (Noto è “lontano” dall’Etna, ma comunque nell’isola dove sorge il vulcano) e T’N’ quando era vicino (come nel caso di Catania, K’T’N’). Ora domandiamoci: attraverso quali canali si poterono creare questi rapporti tra Sicilia e culture mediorientali? A nostro avviso, due sono le ipotesi: o via mare, in epoche remote, giacché solo i Caldei tra gli abitanti della Mezzaluna Fertile possedevano navi in grado di affrontare lunghe navigazioni (avevano infatti grande disponibilità di catrame), o ipotizzando che nel Neolitico Sicilia, Sardegna e Corsica fossero attaccate alla costa africana, e che se ne siano distaccate a seguito di un traumatico evento geologico. Se è vero, infatti, che secondo la classica teoria della deriva dei continenti i moti geologici sono molto lenti, fatti traumatici come impatti di meteoriti o improvvisi cedimenti strutturali al di sotto della crosta terrestre possono accelerarli notevolmente. E la Sicilia, la Sardegna e la Corsica si incastrano perfettamente nel Golfo della Sirte come un puzzle!
Una conferma di questa seconda ipotesi potrebbe venire dal mito di Atlantide. Perché, infatti, nell’emblema di Catania c’è la dea Atena, rappresentata come una donna armata, e la stessa città è simboleggiata dalla lettera “A” (iniziale di Agata, ma anche di Atena)? Secondo il racconto di Platone (Crizia, 108 E ss.), Atlantide era un’isola che novemila anni prima era più vasta dell’Asia e anche della Libia; inabissatasi per molteplici cataclismi costituisce un bassofondo fangoso, ma prima di allora fu coinvolta in una tremenda guerra che vide i re dell’isola, a capo dei popoli abitanti oltre le Colonne d’Ercole, scontrarsi con quelli del Mediterraneo capeggiati dagli Ateniesi, uscendone sconfitti.
Ci si è sempre domandati dove mai potesse essere quest’isola misteriosa: alcuni hanno pensato alla zona delle Canarie, altri all’Egeo, dove intorno al 1450 a.C. l’isola vulcanica di Santorino esplose a seguito di una violenta eruzione, provocando un maremoto che devastò tutte le isole e in particolare la fiorentissima Creta. Ma recenti ricerche archeologiche sembrano puntare in un’altra direzione, e precisamente nel Mediterraneo occidentale. Ora, il dialogo platonico fornisce delle informazioni abbastanza dettagliate sulla mitica isola: essa dispone di una difesa naturale di monti a nord che la difendono dai venti freddi (Crizia pag 118 lettera b), mentre la piattaforma centrale è composta anche da rilievi: certi gruppi montuosi rimasti erano di bassa altezza, e alcuni di essi sono solo in grado di fornire cibo solo alle api (111 c).
Infine, le pietre dell’isola erano di colore rosso, bianco e nero (115e-116 b).
Tutte queste caratteristiche si adattano perfettamente alla Sicilia: i monti a nord (Peloritani, Nebrodi e Madonie), i bassi rilievi al centro (Erei), i monti che danno nutrimento alle api (gli Iblei, famosi nell’antichità per il loro miele), i tre tipi di terreni (rosso = Agrigento, bianco = pietra calcarea di Siracusa, nero = lava dell’Etna).
Inoltre, l’isola venne assegnata a Poseidone allorché, in un mitico e remoto passato, gli dei si divisero a sorte le principali terre. E il nome latino del dio, Neptunus, sembra una reminiscenza di N’T’-Netum, ossia Noto. Ad Atlantide, ancora, abbondavano gli elefanti (114 e), che sappiamo bene essere esistiti
in Sicilia, e della cui presenza l’elefante di Piazza Duomo rappresenta forse un lontano ricordo(5). E per concludere, l’isola era ricchissima di oricalco:
sarebbe interessante esaminare quel metallo di cui sono costituiti i chiodi che sono esposti insieme alla nave punica nel museo archeologico del “Baglio Anselmi” della città di Marsala, inattaccabili dalla corrosione dopo millenni!(6) Non è allora seducente la possibilità che il mito di Atlantide alluda proprio alla remota unità di Sicilia, Sardegna, Corsica e Libia? Ma la più evidente testimonianza “archeologica” di questo passato remoto, in realtà, ce l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ed è il Catanese con la sua cultura popolare fatta di spirito d’improvvisazione, di adattamento, senso della precarietà, furbizia levantina, insomma tutte le caratteristiche psicologiche della gente di mare che è abituata a girare il mondo. Prendiamo per esempio i commercianti della pescheria: ogni giorno “iarmunu(7) u vancu”, espongono la merce, la vendono e poi – altro termine bellissimo – “smuntunu”;
e magari si domandano l’un l’altro “chi fa, munti stamatina?” “Ma viremu, si non mi sigghiu”. Come si vede, la precarietà innata non disturba minimamente il Catanese, anzi per lui è
un pregio, una sicurezza! Così si riposa, tanto si vedrà domani… Tutt’oggi vivono, mangiano, parlano e si divertono come i marinai di millenni fa che
sono rimasti anche oggi tali e quali in tutto il Mediterraneo. Dei popoli navigatori hanno ereditato anche il pacifismo e la tolleranza: i Catanesi, come tutti i siciliani, sono accoglienti e aperti verso tutti gli stranieri, alieni dal suscitare contese di tipo etnico. “Basta ca c’è a paci”: trattano
con gli interlocutori sempre ed in ogni modo amichevolmente e pacificamente, e si difendono solo se costretti. È proprio questo che li ha resi sempre perdenti, perchè gli altri popoli che sono venuti ne hanno approfittato. Anzi, tanta è stata la loro disponibilità verso i vincitori, che spesso i catanesi hanno affiancato ai vecchi toponimi la loro traduzione nelle lingue dei nuovi arrivati(8). Ma alla lunga, come si può ben vedere, sono rimasti vincitori. Anche la religiosità popolare reca le tracce di questa millenaria cultura: basta osservarne la manifestazione più tipica ed esemplare, ossia la festa di Sant’Agata. Gli studiosi hanno sempre colto nelle varie fasi di tale festa diverse reminiscenze di culti pagani, come quello della dea Iside, il cui simulacro veniva portato in processione lungo la costa, e al cui culto viene generalmente ricollegato anche l’obelisco di piazza Duomo. Stranamente, però, non ci si è mai chiesti come mai questa processione, proprio nel giorno dedicato alla Santa Patrona, il 5 febbraio, anziché svolgersi verso il mare si dirige verso l’Etna. E se, anziché la dea Iside, dietro ci fosse un antichissimo culto per la dea del vulcano, A’ H’ T’ H’ N’ A (AITINA)? Concludendo, al lettore molte di queste ipotesi potranno apparire fantasiose, e forse lo sono. Ma il nostro interesse primario è quello di scuotere dal torpore il mondo culturale e accademico, invitandolo ad allargare gli orizzonti della propria ricerca e a non fissarsi in un’unica direzione. Dallo studio dell’“archeologia dei vinti” potrebbero venire interessanti scoperte, ma soprattutto, ci auguriamo, nuovi stimoli per un’autentica rinascita culturale e politica della nostra città. Sapere quale preziosa e antica eredità culturale abbiamo alle spalle non può che renderci orgogliosi, e al tempo stesso, maggiormente responsabili nella gestione del nostro patrimonio. A tal proposito, vorremmo segnalare che l’elefante di piazza Duomo versa da tempo in condizioni pietose, esposto com’è alle intemperie, allo smog e agli atti vandalici. Perché non fare ciò che si è fatto con analoghi capolavori, come le Cariatidi dell’Eretteo, il Marco Aurelio o il David di Michelangelo, ossia sostituire il monumento con una copia e conservare l’originale in un museo che ne garantisca la tutela e la fruizione da parte dei cittadini? Dobbiamo forse aspettare di vedercelo sbriciolare sotto gli occhi?
Note
- Non è escluso che il tempio di Venere Ericina, col suo fuoco sempre acceso, sia stato edificato come faro per la navigazione notturna, a imitazione dell’Etna. Da qui poi potrebbero aver avuto origine le vestali romane, se la leggenda del viaggio di Enea, passato da Erice prima di giungere nel Lazio, ha un qualche fondamento storico dietro di sé.
- È evidente infatti che la nota leggenda di Gammazita, la ragazza che ai tempi del Vespro si sarebbe gettata nel pozzo per sfuggire alla violenza di un soldato francese, è un tentativo posteriore di spiegare un nome di cui non si capiva più il significato. Una spiegazione alternativa (ma praticamente identica rispetto al significato) potrebbe essere GA’ M “molto di più” e X’T’ “acqua”, dunque un pozzo con acqua abbondante.
- Una curiosità: il direttore di un giornale umoristico siriano di Damasco si chiama F’R’ZAT, dove ZAT “Acqua” è palesemente una deformazione araba di XITTA .
- Precisamente: A’ principio I’ emanato da T’N’ (Aton).
- A un attento esame, infatti, non sembra trattarsi della riproduzione di un elefante africano: piuttosto ricorda da vicino gli elefanti nani siciliani, di cui si conservano diversi fossili.
- È probabile che i Caldei abbiano conosciuto la fusione dei metalli e del vetro proprio grazie ai vulcani attivi siciliani, che suggerirono loro l’idea della pietra fusa col calore e perciò modellabile.
- Ossia, “armano”.
- Emblematico il caso di “Mongibello”, che vuol dire “monte” in latino e in arabo. Ma un altro esempio è finora sfuggito all’attenzione degli studiosi: il Castello Ursino. Il suo nome viene solitamente fatto derivare da “Castrum sinus”, “castello del golfo”, perché prima dell’eruzione del 1669 il castello sorgeva su un promontorio affacciato direttamente sul mare. Eppure, un confronto con due toponimi di un’altra parte dell’Italia può gettare nuova luce sulla questione: si tratta di Taurisano e Supersano. Quest’ultimo, in particolare, nella lingua popolare del luogo viene pronunciato “Subursano”: non sarebbe strano che un originario “super” sia stato storpiato in “sub”? In verità basta recarsi sul posto per avere la chiave del problema: Supersano sorge ai piedi di un castello svevo-normanno, ed è quindi chiaro che la forma con “sub” (sotto) è quello primitiva del nome. Taurisano, d’altra parte, sorge nei pressi di un castello a forma di T (in greco Tau). La conclusione, allora, è ovvia: il termine “ursano” significa “castello”, e dunque, “Castello Ursino” vuol dire “Castello castello”, esattamente come Mongibello.
Approfondimenti
Scarica e/o visualizza l’Articolo, in formato PDF, “KATANA ovvero dell’archeologia della cultura dei vinti” Gesualdo Iatrino, pubblicato sulla Rivista “AGORÀ n. 25-26/2006”, per affermare che non c’è “Attlantide” al di fuori della Sicilia.
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